Quando vinse un Campione normale
Era il 29 ottobre del 2006 e sinceramente non ero contento. Non lo ero del tutto, almeno. Io tifavo Ducati, e quella domenica a Valencia le due Desmosedici erano andate davvero forte. Capirex aveva stampato il secondo posto, ma era stato quel pilota disumano di Troy Bayliss a rubare la scena. L’australiano era partito primo alle libere del venerdì e semplicemente non si era più schiodato dalla posizione, su una moto che non aveva mai visto, dato che era lì solo per sostituire Gibernau, infortunato, su gomme Bridgestone che non aveva mai nemmeno provato.
Eppure qualcosa era andato storto: secondo me, se sei italiano, e/o semplicemente ti emozioni per il Motomondiale, non puoi non tenere, nel cuore, per Valentino Rossi. Ragionamento valido anche oggi, che è qualche anno che il Dottore non vince più. Figuriamoci allora: il Rossi del 2006 era un vero cannibale, alla guida della sua M1. Era una gara strana: sarebbero andate in pensione le MotoGp da 990 cc, che sarebbero state sostituite dalle nuove 800 (le 1000 sarebbero tornate nel 2012). Più piccole e squadrate, come suggeriva la Ilmor X3, primo prototipo di 800 a essere stato presentato e testato. Alla fine, ironia del destino, disputò una sola gara con le pari categoria, il GP di Australia, prima che dei problemi economici giungessero a mettere la parola “fine” sull’esperimento. A Valencia, McCoy, che la guidava, arrivò ultimo, staccato di sette giri da tutti.
Le premesse erano tutte buone: Valentino arrivava da leader del mondiale, con sette punti di vantaggio su Hayden, per gentile concessione di Pedrosa, l’altro pilota HRC, che la gara prima all’Estoril, in Portogallo, aveva avuto la buona idea di sdraiarsi e portar nella ghiaia il compagno di squadra.
E invece no: accadde l’improbabile. Mentre Bayliss correva da solo e Capirossi lo seguiva tutto di traverso, Rossi non ne azzeccava una. Prima qualche incertezza, poi una caduta che ne compromise la gara. Sarebbe arrivato tredicesimo al traguardo.
A completare il podio, Nicky Hayden, che in virtù dei punti guadagnati si laureava così Campione del Mondo 2006.
In quel momento, Hayden non mi era simpatico come non è simpatico chi fa un torto. Il suo torto era quello di essere un pilota normale, che aveva tolto la passerella al campione assoluto. Non guardai nemmeno i festeggiamenti: in fondo, non c’era nulla da festeggiare.
Se già non mi era simpatico quel pomeriggio, figuriamoci quando presentarono le moto della stagione nuova! Sulla carena della sua HRC, al posto del solito 69, c’era un 1. Si era messo l’1! Rossi, che di mondiali all’epoca ne aveva vinti già sette, uno in 125, uno in 250, uno in 500 e tutti e quattro quelli disputati di MotoGp, non aveva mai tradito il suo 46. Insomma, mi sembrò ancor più uno spaccone.
Eppure, bastò poco a convincermi del contrario: una semplice intervista, in cui si parlava proprio di questa scelta, del passaggio dal 69, numero che era stato di suo padre, all’1 iridato. “Adesso che ho vinto voglio sapere che effetto fa”.
Una risposta che mi aveva disarmato. Una risposta normale, da persona normale. Che pure, prima di prendere tale decisione, si prese la briga di chiedere al padre il permesso, perché il 69 era il suo numero.
Era la risposta di uno che sapeva che, probabilmente, quel momento non sarebbe tornato, che sarebbe stata l’illusione di un giorno (o di un inverno, viste le tempistiche della MotoGp), che sarebbero venuti altri a riprendersi quel che era loro e a lui non sarebbe rimasto che un ricordo (E che ricordo!)
Rossi non ha mai cambiato numero. Ci sono motivi commerciali, certo, perché VR46 già allora era un brand di quelli che contano (anche se questo, secondo me, sminuisce un po’ tutto il discorso); eppure, non credo che a un fuoriclasse come lui una domanda del genere possa esser mai passata per la testa. I fuoriclasse nascono per vincere. Al limite, faticano a perdere, ma la vittoria è come se fosse un’emozione dovuta.
Le favole, le “una tantum”, invece, sono per le persone “normali”. Sono per chi, pur facendo qualcosa di straordinario già di suo (in fondo, stiamo parlando del Campionato del Mondo di Motociclismo), si ritrova da solo in cima alla salita dopo una vita passata a fare il gregario.
Kentucky Kid, alla fine, ci vide lungo: la stagione dopo, complice il regolamento, Casey Stoner si divertì ad archiviare un campionato segnato già alla prima gara dal passo di una delle accoppiate pilota-moto (quella Desmosedici era un missile su ruote) più forti che ricordi di aver mai visto, strappando con la forza il numero 1 e indossandolo, in questo caso, da fuoriclasse.
Hayden cominciò a scivolare indietro: non avrebbe più vinto in MotoGp. Si concesse poche emozioni negli anni successivi, con qualche sporadico piazzamento di rilievo (qualche terzo posto, un argento a Indianapolis nel 2008) alla guida di Honda, Ducati ufficiale e Honda clienti. Alla fine, il ritiro, nel 2015, e il ritorno in Superbike, la categoria che l’aveva lanciato nel 2002, su Honda ufficiale.
Da qui, inizia la cronaca e finisce il mio racconto. Non voglio ricordarmi di lui per l’incidente, per gli ultimi tragici giorni.
Voglio ricordarlo ritornando con la mente a quel 29 ottobre 2006: quando sul podio di Valencia salì un Campione del Mondo umano. Forse l’ultimo, prima della grande infornata di fenomeni degli ultimi anni. Forse l’ultimo, che, vincendo, aveva davvero provato un’emozione sconosciuta: quella di trovarsi, come in un sogno, sul tetto del mondo.
Che la terra ti sia lieve, Kentucky Kid.